Cenni di storia, mito e coscienza della rappresentazione del Venerdì santo
A volte, peregrinando tra antichi borghi il cui smalto si è in gran parte dissolto con il tempo, non si può non rimanere stupiti dalla dimensione e dal fasto di antichi manufatti, civili ma soprattutto religiosi, decisamente sproporzionati per le esigenze di chi viveva quei luoghi e quei tempi. Ed è proprio il nostro approccio “utilitaristico” a trarci in inganno, portandoci a emettere il giudizio di sproporzione, facendo ciò si entra nella logica di chi pretendeva di soppesare l’anima delle persone nel momento del trapasso. È profondamente sbagliato usare sempre il paradigma del valutare in base all’uso perché ciò che vediamo non è la realtà ma il frutto della materializzazione di un sogno.
In una società in cui, a volte, anche soggetti teoricamente depositari della cultura dell’impegno civico non riescono a sottrarsi al vincolo della minimizzazione degli oneri, se non addirittura a quello dell’ottenimento di profitti, il nobile gesto di investire menti e braccia, altrimenti inoperose, in uno scopo che direttamente emana dalla nostra aspirazione di trascendere il quotidiano assume la forza del rinnovato miracolo. A vederli sono solamente poveri elementi materici: assi, compensati, chiodi e pitture ma, osservati con attenzione, assumono la consistenza di muri; “cattedrali”, pietre dell’anima e luoghi dell’infinito!
Ci piacerebbe consegnare questa chiave di lettura a chi, magari inconsapevolmente e per la prima volta, viene a trovarsi a Cantiano in periodo pasquale. Questi, giungendo in piazza, si troverà di fronte all’imponente scenografia dei “palchi” di quella che è chiamata “Turba” non potendo non chiedersi e chiedere cosa e chi rappresentino quelle “pietre”.
La Turba, rappresentazione del Venerdì Santo, trae probabilmente origine dai movimenti popolari d’invocazione alla pace che, partendo dall’Umbria, si diffusero intorno alla metà del sec. XIII portati sulle strade e nelle piazze dalle genti più umili e in condizioni di miseria, sofferenti ed esauste delle continue lotte tra guelfi e ghibellini. Uomini e donne di ogni età si riunirono in processioni e invocando la santa intercessione della Vergine Maria Madre di Dio, presero a percorrere le strade d’Italia e d’Europa. Anche Cantiano accolse la “turba” dei penitenti di ogni età e condizione che, in povertà di abiti o seminudi, nella luce incerta e tremula delle torce, accompagnati dai canti del “miserere” procedevano nella sofferenza e nella redenzione, battendosi e flagellandosi, implorando il perdono, invocando la pace e la fratellanza. Si formò così la compagnia dei Battuti divenuta, intorno alla metà del XV secolo e per volontà di San Bernardino da Siena, la Compagnia del Buon Gesù. Questa, al fine di tramandare la devozione, si rifece nel tempo al supremo esempio di penitenza e sacrificio: la Passione e Morte del Cristo. Nello sviluppo della processione, che con il tempo accolse la figura del Cristo insieme a quelle degli attori nel ruolo dei personaggi, prese corpo la sacra rappresentazione della Passione con la ripetizione delle ritualità, dei personaggi, dei dialoghi, dell’azione. Nacque così, nell’ordine immutabile del Gesù e dei Ladroni, dei Sacerdoti e dei Soldati, la sfilata scenica che ancora oggi, per ricordare le antiche origini, è chiamata “Turba”.
La manifestazione, che innesta elementi teatrali di rara suggestione scenica sull’originaria processione di personaggi in costume, trasforma l’intero nucleo abitativo storico del paese in un’enorme scena all’aperto fondendo la ricostruzione scenografica con gli elementi architettonici e orografici. Quella che oggi vediamo non è più la stessa che per tanti secoli i cantianesi videro snodarsi lungo le vie del paese. Il rinnovamento, certamente originale, risale agli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale ed è proseguito sino a tempi recenti. La parola ha sostituito la mimica e la recitazione dei passi salienti del Vangelo rende più immediata la comprensione dei fatti narrati. Immutate sono, comunque, le caratteristiche popolari delle origini che non si discostano granché dalla tradizione dei misteri medievali. La sua validità come spettacolo popolare non si può disconoscere: originariamente destinata a un pubblico locale la manifestazione si offre oggi a una platea assai più vasta. Essa, coordinata nelle azioni dai membri di un’Associazione culturale non lucrativa (Onlus “La Turba”), ha trovato e trova sostegno morale e materiale nelle persone che offrono il loro sapere e saper fare consapevoli di dar vita a un evento importante per la comunità intera e per quella che, come spettatrice, vi si aggrega vivendo un peculiare rapporto dinamico tra spettacolo e spettatore che raggiunge una perfetta articolazione oltre a un ampio coinvolgimento.
Ma cosa motiva e spinge donne e uomini, giovani, adulti e anziani verso tutto questo? È lecito pensare che debba esistere un progetto di fondo piuttosto che lasciare all’impronta del tempo e degli individui il divenire? Possiamo pensare a una sorta di “tensione etica”, non disgiunta da un “progetto sociale”, che dovrebbe guidare, indifferentemente, alla conservazione di un’eredità ricevuta piuttosto che alla mutazione? Se guardiamo al passato troviamo spesso, un’alternarsi di approcci diversi senza riscontrare, almeno in apparenza, reciproca disamina e soprattutto reciproco rispetto delle posizioni raggiunte da altri. È tipico del nostro tempo investigare per conoscere, chiedendosi se e dove risulti “lecito” intervenire. Noi vorremmo invece pensare non alla superiorità ma all’utilità di un approccio basato su un “progetto” o meglio un approccio che usi il paradigma del progetto come guida. E allora, tra le molte scelte possibili vorremmo adottarne una nella quale la manifestazione possa presentarsi come vero “laboratorio sociale” proponendo l’idea che vede più un contenitore che un contenuto, eventualmente declinando quest’ultimo al plurale; plurale come i sentimenti e le convinzioni dei singoli che vengono ad accomunarsi sotto un unico obiettivo. E se ad alcuni può comunque non piacere l’identificazione “paraliturgica” dell’evento, si può comunque concordare sulla definizione di “sacralità “ prima ancora che su quella di “religiosità”. Sacralità che, nel rigore dei pensieri e delle azioni conseguenti, concretizza per alcuni il senso di appartenenza a una fede, per tutti la consapevolezza e l’adesione a una matrice culturale e sociale.
Molti anni fa, da una oramai “stanca” tradizione secolare, presero forma nuove idee e pur nella povertà dei materiali e semplicità della realizzazione, ci si dotò di un linguaggio adatto ai tempi (anni’30, ’40 e ’50): un impianto scenografico grandioso e un’efficace azione drammaturgica. Senza modificare affatto l’impronta originale, i progettisti filtrarono e pulirono le forme. Su di un impianto strutturale mutuato dalle competenze dei carpentieri edili, fu adagiata la veste delle scene mirabilmente realizzate dai molti falegnami e pittori presenti nel paese. C’è un grande significato che possiamo ritrovare in quest’opera collettiva, che va ricercato principalmente nella materia con cui tutto fu realizzato: il legno. Legno perché era poco costoso, facile da lavorare e, di fatto, l’unico reperibile in quel periodo lontano. Ma c’è di più; c’è una fetta di storia industriale della nostra comunità. Ci sono la forza e l’amore di uomini che nel proprio lavoro affinarono la tecnica potendola poi lasciar liberamente correre nell’impegno del “dopo cena”, nella creazione di un effimero nobilitato proprio della caducità del materiale divenuto autentica memoria materica del progetto.
Nel segno del “rispetto” rimane così immutato il doveroso tributo a nonni, padri o compaesani per quanto hanno tramandato pur rinnovando. Per ogni generazione ciò che si fissa nel proprio tempo assume il naturale connotato del “migliore” ed è giusto che sia così. Cambiano le forme, cambiano i linguaggi e l’atto corale di una comunità che sente il desiderio, forse il bisogno, di misurarsi in un gesto collettivo per esprimere qualcosa, merita rispetto ancor prima di un giudizio, benevolo o meno che sia. È con questa speranza che si vuol idealmente consegnare il testimone della manifestazione alle generazioni future che vivranno, anche loro, il dilemma del tramandare la tradizione affrontando la sfida di esprimerla nei propri linguaggi.
Vogliamo concludere queste poche riflessioni pensando idealmente a chi, tra noi, raccoglie al Getzemani l’affermazione di Gesù che esorta a pregare pregando realmente entrando così in quella dimensione che vorremmo fosse di ogni interprete e spettatore. Concilieremo così le “lusinghe mediatiche”, viste come ultima e più esacerbata frontiera del “… suonare la tromba davanti a te …” (Mt 6,2), con il sentimento orgogliosamente intimista che invita “… quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto …” (Mt 6,6).
Ecco, è tutta qui la forza della manifestazione. Non essere semplice commento figurato di un atto liturgico, ma creazione di un contenitore vivente, dentro il quale lo stupore e l’emozione sono i linguaggi usati per riconciliare partecipanti e spettatori con la loro intima condivisione del messaggio cristiano. E allora, in quella sera di primavera ora pungente e aspra, ora rassicurante e tiepida, sotto quel cielo velato dal fumo e permeato dall’acre olezzo della paraffina e dell’olio noi, noi tutti, divisi dalle diversità umane ma uniti dal momento, non potremmo non essere portati a credere nell’autentico valore di ciò che facciamo perché “razionalmente” condotti a pensare che: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (Atti, 4,12).
Più che un momento, la Turba è un percorso la cui lunghezza e asperità ognuno liberamente sceglie. Ognuno ha della manifestazione e del ruolo che in essa riveste una definizione quanto mai peculiare, basta chiedere e ascoltare. Da un momento di commovente partecipazione religiosa sino a una forma altissima di spiritualità laica passando per le molte sfumature degli atteggiamenti umani: da quello irriverente e canzonatorio sino a quello ispirato all’atto di fede. C’è persino chi, nel curare l’allestimento delle scene, si sente misteriosamente vicino a coloro, mastri e operai, che nei secoli del medioevo edificarono le cattedrali piegando spazio luce e materia per la gloria di Dio. Ma salendo quel verde sentiero che conduce al simulacro del Golgota, non possiamo non cogliere la suggestione di altri assolati e polverulenti che furono calcati da Gesù e dalla stupita coorte di discepoli e seguaci. Siamo trascinati su questi “percorsi” dalla ripetuta lettura di quei vangeli che “celebrano” il più grande scandalo teologico di tutti i tempi: l’“annullamento” di un Dio che da verbo si fa carne e si pone uomo tra gli uomini in una missione di accettazione di tutte le vulnerabilità umane, sino al sacrificio supremo della propria sofferenza e morte, passaggi ineludibili verso quel messaggio di speranza che è la “rinascita” nella resurrezione. E allora anche chi non “gode” dell’illuminante dono della fede dovrebbe comunque trovare una “giustificazione” a questo suo percorso di ascesa. Non ci si può non mettere alla ricerca di quella figura primitiva di Gesù da cui tutto nasce. Alla ricerca del suo “primo” e incontaminato insegnamento. Una lettura non condizionata da “pregiudiziali” interpretazioni a posteriori sull’entità del Suo “messaggio sociale” convinti che Lui, uomo, parla all’uomo e non alla moltitudine. Entra diretto nell’animo del singolo perché solo da qui possono nascere la vera liberazione dal “peccato” e la reale rinascita. Chi con Lui si trova qui a “convivere” e “dialogare” non dovrebbe porsi come viatico “minimo” almeno la volontà di “conversione” dai valori estetici di una rappresentazione a quelli etici di una condotta di “partecipazione”? Questo, dobbiamo riconoscerlo, è un valore universale al quale nessuno dovrebbe sottrarsi. Questa, è una “folgorazione sulla via di Damasco” dalla quale nessuno dovrebbe essere immune.
Associazione culturale Turba (Aprile 2011)